Uranioimpoverito's Blog

un blog sull'uranio impoverito a cura di lorenzo pellegrini

LA PRIMA INCHIESTA

Un’inchiesta  pubblicata su Pmnet.it a partire dall’aprile 2007.


Prima puntata 2 aprile 2007

di Lorenzo Pellegrini

E’ di poche settimane fa la notizia dell’ultima vittima in ordine di tempo per gli effetti dell’esposizione alle radiazioni all’uranio impoverito. Si chiamava Amedeo D’Inverno ed aveva trent’anni, volontario nell’Esercito Italiano, vittima numero quarantacinque. La prima fu Salvatore Vacca, deceduto per leucemia, nel 2000; lo seguirono in questo destino tristissimo, Andrea Antonacci, Giuseppe Pintus, poi tanti altri.
La seconda Commissione Parlamentare d’inchiesta del Senato, istituita con una deliberazione dell’undici ottobre del 2006, ha un anno di tempo per concludere i suoi lavori.
Questo il titolo della deliberazione riportata sulla Gazzetta Ufficiale del 23 ottobre 2006, n.247: “Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui casi di morte e gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato nelle missioni militari all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, nonchè le popolazioni civili nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti le basi militari sul territorio nazionale, con particolare attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico.”
Solo una settimana fa, il 23 marzo scorso, dopo cinque mesi, durante una conferenza stampa, la Presidente della Commissione ha presentato le proprie linee guida.
PMnet inizia da oggi a tracciare un riassunto degli avvenimenti che si sono determinati a partire dalle missioni nei Balcani, tentando di fornire ai lettori, alcune “linee guida” per indagare nelle maglie complicate, fitte e spesso ambigue, se non oscure, della vicenda.

Oggi è difficile negare la correlazione tra l’esposizione alle radiazioni e le malattie gravissime e letali di cui sono affetti oramai più di cinquecento soldati italiani che hanno partecipato ad alcune missioni all’estero. Non si tratta di un’opinione giornalistica, ma di risultati scientifici riconosciuti da tempo in tutto il mondo, a cominciare dagli studi di alcuni scienziati italiani di cui i grandi mezzi di informazione sovente tacciono.
L’istituzione di questa ulteriore Commissione, dopo numerose interrogazioni parlamentari, proteste dei familiari delle vittime, dopo la commissione Mandelli e dopo una prima commissione parlamentare d’inchiesta, è stata fortemente “causata” non solo dagli eventi diventati ormai incalzanti, ma anche dalla pressione civile delle Associazioni che rappresentano i morti e i malati, da alcune Associazioni di militari in servizio e in congedo, dalla stessa opinione pubblica che pretende, quanto meno, gli opportuni riconoscimenti alle vittime e alle loro famiglie.

E l’attribuzione, se ancora possibile, di un qualche scampolo di responsabilità.


seconda puntata

di Lorenzo Pellegrini

20/04/2007

L’uranio è un metallo radioattivo e tossico, con un peso specifico particolarmente elevato, presente in natura nelle rocce, nel suolo e nell’acqua; viene usato nel campo civile ed in quello militare in due diverse forme, dopo essere stato sottoposto a procedure per “arricchirlo” o “impoverirlo”, agendo sulle frazioni U 235 e 238 degli isotopi che lo costituiscono.

L’uranio impoverito (conosciuto nei documenti in lingua inglese come Depleted Uranium) è poco costoso, estremamente duro e disponibile in enormi quantità perché è un prodotto di scarto del processo di raffinazione dell’uranio impiegato, per esempio, nelle centrali atomiche.
Per scopi civili è usato per le schermature degli impianti a radiazioni nel campo medico, oppure, dato il suo elevato rapporto fra volume e peso, come zavorre in imbarcazioni o velivoli (nel modello “c 130”, in dotazione anche all’Aeronautica Militare italiana).
Nella forma impoverita, sempre in campo militare, può essere usato soprattutto per la costruzione di blindature oppure per la costruzione dei proiettili perforanti, fatti in modo da essere in grado di oltrepassare le blindature e di penetrare all’interno del bunker.
I proiettili sono generalmente formati da un rivestimento esterno e da una parte interna, di uranio impoverito, appunto, che attraversa la corazzatura ed esplode, incendiandosi e polverizzandosi in particelle estremamente piccole.
Le polveri di uranio si diffondono nell’area colpita rimanendo attive per molti anni e sono facilmente inalabili attraverso la respirazione o in alcuni casi addirittura ingeribili. Queste armi sono state usate sicuramente in Kosovo, Serbia, in Bosnia, in Irak, probabilmente anche in Afganistan E Somalia. In tutte queste aree ed in quelle limitrofe, hanno operato, nell’ambito delle missioni internazionali, anche le Forze Armate italiane: Missione KFOR in Kosovo dal 1999 e ancora in corso, ISAF in Afganistan dal 2003 e ancora in corso, EUFOR ALTEA in Bosnia Erzegovina dal 2004 e ancora in corso, UNIFIL “Leonte” in Libano nel 2006 e ancora in corso, IFOR SFOR in Bosnia Erzegoniva 1995-2004, Ibis 1 e 2 in Somalia.
Dopo le perplessità iniziali durate anni, ed i tentativi di mettere in dubbio i primi studi effettuati sull’argomento, dopo i numerosissimi casi di malattie che hanno colpito le popolazioni civili e gli eserciti di molte nazioni, le comunità scientifiche e politiche mondiali sono oramai orientate a pensare che respirare quelle polveri abbia un effetto dannoso. Sulla Rete circolano foto inguardabili di bambini che ancora oggi nascono nei territori contaminati, con malformazioni gravissime.
In via preliminare, possiamo dire che a livello politico, in Italia, si è sviluppata un’ampia discussione le cui tappe fondamentali useremo come riferimenti per la nostra inchiesta: l’istituzione di una Commissione scientifica istituita dal Ministero della Difesa, insediatasi nel 2000 e presieduta dal Professor Franco Mandelli per indagare “sull’incidenza di neoplasie maligne tra i militari impegnati in Bosnia e Kosovo” a cui seguirono tre diverse relazioni finali; l’istituzione di una prima commissione parlamentare d’inchiesta, istituita dal Senato il 17 novembre 2004, prorogata dopo un anno; l’istituzione di una seconda commissione parlamentare d’inchiesta istituita con deliberazione dell’11 ottobre 2006.
Nel frattempo sono state presentate numerose interrogazioni, interpellanze parlamentari e richieste di precisazioni, i cui fili conduttori più importanti si possono ricercare,  nelle dichiarazioni del Ministro Sergio Mattarella, del Sottosegretario di Stato alla Difesa Massimo Brutti il 22 aprile 1999 ed infine del Ministro della Difesa Antonio Martino, in una ormai famosa e contestata audizione presso la prima Commissione d’inchiesta. Ma siamo oramai all’11 maggio 2005, quando è difficile negare alcune evidenze. Analizzeremo anche, per chiarezza, il dettaglio della relazione presentata dal Ministro, ovviamente di dominio pubblico in quanto archiviata fra gli atti parlamentari. Possiamo tuttavia già anticipare che tale relazione pare non abbia avuto un effetto molto convincente sui membri della Commissione.
Alcuni membri di essa hanno contestato per esempio a Martino i criteri statistici usati e sollecitato risposte più circostanziate. Il Ministro, adducendo per quella occasione impegni urgenti ed improrogabili, ha detto di essere disposto a rispondere per iscritto ai quesiti posti dalla Commissione. Ma di queste risposte stiamo ancora cercando le tracce.

Tutte le dichiarazioni ufficiali, convergono comunque sulla tesi secondo cui i militari italiani non abbiano mai utilizzato armi contenenti uranio impoverito. Rimane da stabilire se ed in che modo gli stessi militari siano stati esposti senza le opportune precauzioni in ambienti contaminati e soprattutto se si possa riscontrare un legame tra le patologie da cui sono stati colpiti, le radiazioni e le polveri tossiche. E questo, probabilmente, è il vero punto focale di tutta la questione.
Nel corso degli anni sono stati commissionati, avviati e in parte conclusi molti studi scientifici di ambito internazionale, da parte della Nato, di istituti indipendenti, di enti militari e così via.
I risultati, anche se a volte piuttosto “oscuri” ed “interpretabili”, sono sempre più precisi e supportati da analisi e nuove scoperte.

terza puntata

di Lorenzo Pellegrini

30/05/2007

Fra il 1999 e il 2001 si registra una notevole produzione di documenti ufficiali, di cui è impossibile dare conto in questa sede, ma che permettono di seguire il filo logico della complicata storia che stiamo ricostruendo. Si tratta in prevalenza di relazioni, studi e pareri che si integrano a vicenda, ma senza contraddirsi.
Ma è soprattutto il 2001 l’anno in cui la Comunità mondiale comincia e prendere coscienza del fatto che esiste il problema “Uranio impoverito” (‘UI’, ma nei documenti in inglese ‘DU’, come ‘Depleted Uranium’).
La NATO, l’ONU e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (‘OMS’ o, nell’acronimo internazionale, ‘WHO’), cominciano a interessarsi alla verifica di eventuali legami fra l’uso di armi all’UI e le patologie di cui giungono continue notizie. Il 17 gennaio del 2001, Rafiah Salim, Segretaria Generale delle Risorse Umane presso l’ONU, invia una lettera a tutto il personale dell’ONU che opera o ha operato nei territori in cui sono state usate armi all’UI.
In questa lettera si prende atto dell’attenzione che i mezzi d’informazione mostrano sulla possibilità che l’esposizione all’UI possa causare vari effetti, fra cui la leucemia; poi si aggiunge che attualmente (siamo nel 2001), non esistono prove scientifiche certe sull’esistenza di questi rischi. NATO, WHO e UNEP (che è l’Organismo per l’ambiente delle Nazioni Unite), stanno studiando il problema, assumendo come riferimento alcune zone selezionate nei Balcani ed in particolare in Kosovo.
La previsione è quella di monitorare e controllare attentamente i dati che arrivano, perché la preoccupazione primaria è la salute del personale ONU impegnato nella zona. I risultati dello studio saranno resi pubblici a partire da fine febbraio dello stesso anno.
Un documento che in qualche modo riassume lo stato degli studi in quel preciso periodo viene nel frattempo pubblicato dal WHO a Ginevra, ed è intitolato “Depleted Uranium: sources, exposure and healt effect”.
Si tratta di una monografia tradotta in varie lingue, (ma come avviene quasi sempre, non in italiano), che ha come obbiettivo quello di stabilire il rischio per la salute, in seguito all’esposizione all’UI.
Secondo questa pubblicazione, il veicolo principale attraverso cui il corpo umano può venire in contatto con l’UI, è l’inalazione, attraverso le polveri sottili trasportate dal vento. Altre modalità sono l’ingestione, soprattutto attraverso l’acqua e il cibo che fa parte del ciclo alimentare (falde acquifere contaminate, consumo diretto di prodotti della terra, o consumo di carni di animali che hanno mangiato l’erba), e infine, attraverso il contatto diretto con la pelle, per esempio con schegge metalliche.
Il 95% dell’UI che entra nel corpo umano, sempre secondo questa ricerca, non è assorbito e quindi viene smaltito. In particolare il 67% è eliminato entro le 24 ore. Non c’è alcun riferimento a dati precisi sul restante 5%. Tipicamente, fra lo 0,2% e il 2% dell’UI assunto attraverso l’acqua e gli alimenti, è assorbito dal tratto intestinale, ma i due organi maggiormente esposti sono reni e polmoni. Il documento parla inoltre dei cosiddetti studi di lungo periodo su realtà diverse, e alle particelle insolubili che tendono ad essere mantenute nel polmone e nel rene e possono condurre al cancro.
Viene precisato che l’UI è un prodotto potenzialmente tossico i cui danni sull’uomo dipendono sia dalle caratteristiche dell’UI stesso, sia dai tempi di esposizione e dall’intensità dell’esposizione stessa. Ricordiamo che numerose fonti scientifiche, da molti anni ormai, assumono la radioattività dell’UI al 60% dell’uranio naturale. Il documento sembra voler fare riferimento ad una “soglia” oltre la quale l’UI diventa pericoloso, ma le informazioni scientifiche a disposizione (siamo ancora nel 2001) non permettono di valutare quali siano tali limiti. Non si ritiene necessario, infine, il monitoraggio e lo studio sulle popolazioni residenti.
Il 17 aprile dello stesso anno, a distanza di tre mesi esatti dalla prima lettera, Rafiah Salim contatta nuovamente tutto il personale ONU per informarlo che WHO e UNEP hanno pubblicato i loro rapporti, rintracciabili presso i rispettivi siti internet, concernenti l’UI in Kosovo. Si legge, fra l’altro : “Scientific and medical studies have not established a link between exposure to depleted uranium and the onset of cancers a birth defect”. Cioè: non è stato possibile stabilire un collegamento fra l’esposizione all’UI e il cancro o i difetti di nascita. I campioni raccolti hanno indicato bassi livelli di radioattività e di tossicità, pertanto non sono state trovate prove convincenti per indicare alcun effetto sulla salute delle popolazioni.
Nel testo della lettera si consiglia, comunque, molta prudenza, soprattutto perché non sono ancora noti gli impatti ambientali di lunga durata, in particolare per ciò che riguarda l’acqua freatica.


quarta puntata

di Lorenzo Pellegrini

02/07/2007

E’ esatto pensare che la Comunità internazionale abbia preso atto del problema costituito dall’uso dell’uranio impoverito solo a partire del 1999?
Difficile azzardare una risposta, però possiamo elencare alcuni fatti su cui riflettere. In un documento del Pentagono, tenuto segreto per molti anni, si fa risalire al 1943, in piena Seconda Guerra Mondiale, una prima discussione sull’uso militare di materiali radioattivi, le cui capacità distruttive furono successivamente verificate con le due atomiche sganciate in Giappone.
E’ un dato ormai certo che nel 1978, negli Stati Uniti la produzione di proiettili all’Uranio impoverito, fosse già iniziata, per cui si può presumere una sperimentazione all’interno di appositi poligoni. Vale la pena ricordare che l’UI è un materiale durissimo e con un peso specifico molto elevato, pari a circa 1,7 volte quello del piombo. Ricavato dai prodotti di scarto nel processo di arricchimento dell’uranio, è usato come abbiamo visto, sia per scopi civili che militari e la sua produzione è quasi a costo zero, risultando addirittura “utile” a smaltire (riutilizzandole) quelle che altrimenti sarebbero semplicemente scorie radioattive.
Fra il gennaio e febbraio del 1991, durante la Guerra del Golfo contro Saddam Hussein, per la prima volta, almeno ufficialmente, le truppe americane utilizzano proiettili e corazzature dei carri armati “M1 Abrams”, con questo materiale.
Il cannoncino “Avenger”, con cui sono armati l’aereo “A-10 Wartog” e l’elicottero “Apache”, è un ordigno a sette canne, in grado di sparare 4.200 colpi da 30 millimetri al minuto; durante il conflitto, le stime più attendibili parlano di circa 940.000 proiettili usati, per un totale di più di 300 tonnellate di uranio impoverito disperso nelle esercitazioni nei poligoni dell’Arabia Saudita, nell’attacco contro le truppe di Saddam in Iraq e durante l’esplosione del deposito americano di Doha in Kuwait. Ma fermiamoci qui.
Si è trattato per gli Stati Uniti di una guerra con relativamente poche vittime (“solo” 147 morti, se si escludono i morti in incidenti stradali e circostanze di altro tipo), una guerra quasi senza costi umani, per le forze vittoriose della Coalizione (ricordiamo che il conflitto si è svolto sotto l’egida dell’ONU). Sul numero delle vittime irachene, non ci sono certezze, ma siamo nell’ordine delle centinaia di migliaia, fra civili e militari, almeno nell’immediatezza del conflitto. Ma non è tutto, come vedremo. Intanto è opportuno un breve cenno sul significato che può avere per l’industria bellica, che ha come finalità quella di vendere i propri prodotti, e che rappresenta una lobby potentissima a livello mondiale, la notizia di perdite minime grazie all’uso di armi così potenti. Stiamo parlando di corazzature all’UI, in grado di resistere alle armi convenzionali, e di armi capaci di sviluppare una potenza di fuoco tale da perforare qualsiasi armatura e di fare esploder e anche bunker sotterranei di cemento armato.
Le cose però non sono andate proprio così. All’inizio della guerra, nonostante fossero ampiamente note sia la natura, sia gli effetti tossici e radioattivi dell’UI, l’esercito americano, non aveva mai ammesso pubblicamente tale circostanza. Ciò sarebbe stato come ammettere di aver deliberatamente violato le convenzioni internazionali che non consentono l’uso di armi che potrebbero essere considerate, a seconda delle interpretazioni, chimiche e nucleari, soprattutto in quanto esse non sarebbero in grado di discernere gli obiettivi: sono le cosiddette armi di “distruzione di massa”, di cui sentiremo parlare, proprio dagli Stati Uniti, in epoca più recente. Poi avvennero due fatti. Il primo è stato riportato dal Wall Street Journal del 10 giugno 1991.
Secondo l’autorevole quotidiano statunitense, nel marzo dello stesso anno, quindi nello stesso periodo in cui si combatteva in Iraq e Kuwait, un carro armato carico di munizioni all’UI fu sotterrato all’interno di una discarica nucleare nella Carolina del Sud. Per motivi immaginabili. Il secondo fatto richiama le conseguenze del cosiddetto “fuoco amico”. Durante la “Tempesta nel deserto”, ci furono 15 soldati americani morti e 63 feriti, colpiti all’interno di 6 carri armati e una quindicina di blindati. Siccome gli unici armamenti in grado di provocare danni simili, erano quelli all’UI, che notoriamente Saddam non possedeva, gli americani sono stati costretti ad ammettere di aver usato tali munizionamenti, per di più in seguito ad errori, sulle proprie truppe.


quinta puntata

di Lorenzo Pellegrini

16/07/2007

Terminiamo con questa puntata, la parte della nostra inchiesta relativa alla Guerra del Golfo.
Tuttavia, per avere un’idea utile per capire su quale tipo di terreno ci stiamo muovendo, è interessante conoscere la storia di un documentario. Siamo nel 1996. La Guerra del Golfo è stata conclusa in poche settimane, nel 1991, e l’assetto politico e strategico di quella parte di Medio Oriente è cambiato. Intanto, molti reduci americani, tornati in patria, cominciano ad accusare problemi di salute. Le Autorità negano che ci possa essere qualsiasi correlazione fa le malattie e la permanenza delle truppe in Iraq, Kuwait e Arabia Saudita.
Qualche notizia arriva anche dalla Gran Bretagna. In cinque anni, sono morti circa 10.000 (diecimila) soldati americani e altri 50.000 accusano gravi patologie, in alcuni casi ancora sconosciute. Alcuni di loro hanno figli che nascono con gravissime malformazioni. Si comincia a parlare di “Sindrome del Golfo” e si istituisce una commissione (commissione Clinton), con lo scopo di fare chiarezza.
In Italia, la Rai, e precisamente Rai2, con Alpha – Bet Pictures, decide di commissionare e produrre un documentario. Il regista è Alberto d’Onofrio, l’organizzazione e il montaggio di Alessandra Ugolini, le riprese di Jack McQueen, il titolo è “La Sindrome del Golfo” (Gulf war syndrome) e la durata è di 40 minuti. Nella scheda del documentario si introduce il tema: “A 6 anni da quella guerra, alla quale presero parte 700.000 soldati americani, più di 50.000 di questi sono affetti da una malattia cronica che attacca il sistema immunitario definita come “Sindrome del Golfo”. La malattia ha già ucciso tra i 5.000 e 10.000 soldati, contagiando il 76% dei familiari.
Le cause possibili: si parla di contaminazione chimica e di vaccini sperimentali somministrati indistintamente a tutti i soldati e di missili biologici lanciati da Saddam.
Il Pentagono nega l’esistenza di questa Sindrome accusando i veterani di fingersi malati allo scopo di ottenere un aiuto economico, e respinge anche la tesi della contaminazione chimica o biologica.
Le vittime innocenti di questo mistero sono decine di bambini nati con gravi deformazioni come la mancanza di organi interni, o di arti superiori o inferiori, e ancora, paralisi, problemi respiratori, insomma tutte malattie incurabili”.
Il documentario parla di allarmi chimici che scattano in continuazione dopo i bombardamenti delle fabbriche di Saddam e di ufficiali che esortano i soldati a non preoccuparsi perché i test chimici a loro disposizione non sono attendibili; di cadaveri di soldati di Saddam uccisi lungo la cosiddetta “strada del suicidio”, sui quali non c’era, insolitamente, un solo insetto; c’è l’intervista a Dan Fahid capo dell’associazione veterani di San Francisco, che dice: “Tutti guardano al fatto se l’Iraq abbia usato o meno armi chimiche, ma allo stesso tempo dobbiamo puntare il dito contro il nostro stesso Governo perchè l’America ha impiegato pallottole all’uranio senza avvertire nessuno. Neanche le truppe americane sapevano che stavano usando l’uranio e che era molto pericoloso. Si parla di vaccini di vario tipo, di cui alcuni sperimentali, altri mai usati prima, contro i gas nervini, per cui il 43% dei soggetti cui sono stati somministrati hanno immediatamente manifestato sintomi allergici di vario tipo.
Il Generale Blank, capo del “Walter Reed Medical Center”, (ospedale recentemente al centro dell’attenzione dopo l’inchiesta del “Washington Post” sulle condizioni del padiglione che ospita i reduci dell’attuale conflitto in Iraq e Afghanistan), è l‘Autorità che ha firmato il permesso di testare i vaccini usati per la guerra in Iraq: ed è anche l’Autorità nominata per seguire le indagini sulla “Sindrome del Golfo”. Circostanza curiosa, che sembra fatta apposta per confermare che non solo in Italia si può discutere di conflitto d’interesse. Nel documentario di D’Onofrio si parla anche del 76% delle mogli dei veterani, che hanno contratto patologie simili a quelle dei rispettivi mariti, per il solo fatto vivere in contiguità con loro. Infine, dice un intervistato: ” L’acquisizione da parte di Saddam del suo arsenale chimico e biologico è stato molto complesso.
Gli agenti chimici che compongono le bombe come anche le sostanze biologiche, le parti necessarie a fabbricare a missili, i computer che progettano armi nucleari, le testate contenenti armi nucleari o chimiche venivano tutti dagli Stati Uniti ma anche dalla Russia, dalla Germania, dall’Italia e da altri Paesi sia in Europa che in Asia.
Quando è stato trasmesso il documentario di Alberto D’Onofrio, commissionato e prodotto, cioè finanziato dalla Rai?
Mai, perché è stato censurato, dagli stessi vertici dell’Azienda, che hanno motivato la decisione appellandosi al “diritto di scelta editoriale”.
Il documentario, per il momento, è stato visto nell’ambito di alcuni dibattiti presso associazioni culturali o pacifiste e centri sociali nelle città di Lucca, Siena, Firenze, Bologna, Brescia, Roma, Pescara, San Benedetto del Tronto, Lecce, e qui in Piemonte, a Torino e Alessandria.


sesta puntata

di Lorenzo Pellegrini

13/09/2007

Dopo aver parlato brevemente delle vittime e degli ammalati negli Usa, è arrivato il momento di fare il punto della situazione in Italia, tenendo presente che anche altri Paesi stanno affrontando analoghi problemi legati all’uranio impoverito. E lo facciamo, questa volta, ragionando su un comunicato stampa diffuso all’inizio dell’estate da Francesco Palese, personaggio molto attivo nella ricerca di notizie che riguardano quest’argomento in continua evoluzione, nonché ideatore e curatore dell’interessante e aggiornatissimo portale www.vittimeuranio.com.
La fonte principale cui fa riferimento il comunicato stampa di Francesco Palese è il cosiddetto “libro nero” che ha realizzato insieme all’Ana-Vafaf, l’Associazione che tutela le famiglie dei militari deceduti in tempo di pace, di cui è presidente l’Ammiraglio Falco Accame .

Chi è Falco Accame: è un ex alto ufficiale della Marina Militare, già Presidente e Vicepresidente della Commissione Difesa e membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle commesse militari; autore di numerosi articoli e saggi, attualmente impegnato nella denuncia delle problematiche legate all’uranio e considerato la più autorevole memoria storica sull’argomento.
Ha scritto, fra le altre cose, un libro-intervista uscito nel 2006, reperibile gratuitamente anche in Rete, intitolato “Uranio impoverito. La verità. Giulia Di Pietro intervista Falco Accame”, ed. Malatempora, 10,00 euro.
Il recente documento di Palese, fa riferimento in modo particolare a tre aspetti dell’intera vicenda trattati dal “libro nero”: una lista dettagliata dei nomi e della provenienza geografica delle vittime, l’indagine sulle cause dei decessi, e l’opinione non ancora definitiva, ma ampiamente documentata, secondo cui i cosiddetti “teatri di provenienza” delle patologie sarebbero, oltre ai Balcani e ad alcuni poligoni militari del nostro Paese, anche la Somalia e il Golfo.
Vediamo qualche dettaglio. Sono diciannove le patologie tumorali accertate, delle quali sei non definite (nel senso che non sappiamo precisamente di cosa si sono ammalati i nostri soldati). Cinque casi di tumore celebrale, due tumori ai polmoni, due allo stomaco, uno alla laringe, uno al pancreas, uno al cavo orale, e uno ai reni. I casi di leucemia di vario tipo sono invece undici. Inoltre: otto casi di linfoma di Hodgkin, quattro di melanomi, quattro di linfomi “non meglio precisati”, tre casi di linfomi non Hodgkin.
A partire dal 1993: dodici morti in Campania, dieci in Sardegna, sei in Puglia, quattro in Sicilia, quattro nel Lazio, tre in Lombardia, due in Veneto, due in Toscana, due in Liguria, uno in Umbria, quattro di cui l’Ana – Vafaf non conosce per il momento la provenienza. Sono cinquanta.
Come faceva giustamente notare Francesco Palese, con il quale PMnet è in contatto, la provenienza geografica ed i dati personali dei militari attualmente ammalati, sono coperti da un velo di ovvia ‘privacy’. Per quanto riguarda le vittime, i dati accertati si riferiscono appunto ai luoghi d’origine della famiglia. In totale fra deceduti e ammalati, quasi seicento persone coinvolte, che hanno prestato servizio, possiamo ragionevolmente ipotizzare, nella maggior parte delle caserme distribuite sul territorio nazionale. Dalle notizie diffuse ufficialmente, pare che fra le vittime non ci siano ragazzi piemontesi.
Si tratta probabilmente di una casualità. Di certo è solo statistica, pallida, di fronte alle tragedie umane di cui stiamo parlando.
Secondo Falco Accame, undici casi di tumore sono estranei alle missioni all’estero, perché si sono verificati presso i poligoni di tiro presenti nel nostro Paese, soprattutto a causa delle modalità di bonifica, senza le opportune protezioni, dopo le prove balistiche e le esercitazioni. E doveroso ricordare la difficoltà di risalire all’origine certa, cioè l’ambiente presso il quale le patologie si sono innescate, anche perché molti dei militari colpiti hanno operato in vari teatri in tempi successivi. Secondo l’Ana – Vafaf, tuttavia, dodici casi possono essere fatti risalire alle operazioni in Bosnia, trenta nei Balcani, due casi alla prima Guerra del Golfo (1991) e cinque alla missione “Restore Hope” in Somalia, nel 1993.
Un particolare piuttosto agghiacciante, su cui ritorneremo: la contaminazione (ricordiamo, non solo di carattere radioattiva, ma anche chimica), è avvenuta perché i nostri soldati hanno operato senza le adeguate cautele, in territori nei quali erano presenti agenti pericolosi, a partire appunto dal 1991. Ricordiamo infine che appositi protocolli rigorosi sono stati diramati a livello internazionale e che le truppe alleate, Statunitensi per esempio, disponevano di maschere e tute adatte per affrontare il pericolo invisibile.
Altro capitolo su cui riflettere e che è oggetto di studio, come abbiamo visto, anche in sede Onu, è il problema concernente la decontaminazione dei territori interessati dai conflitti e dalle esercitazioni, nei quali tuttora risiede la popolazione civile.


settima puntata

di Lorenzo Pellegrini

11/10/2007

Le recentissime dichiarazioni del Ministro della Difesa Arturo Parisi, sentito dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, hanno riportato su tutti i giornali, l’argomento uranio. Secondo quanto dichiarato da Parisi, in dieci anni di missioni all’estero (1996-2006) i militari italiani ammalati sarebbero 255, di cui 37 deceduti; il totale dei militari italiani che non hanno partecipato a missioni all’estero e che si sono ammalati è di 1.427, anche se non è chiaro, sempre secondo il Ministro, se e quanti di questi abbiano frequentato “i poligoni di tiro nazionali”. Parisi ha poi aggiunto che “l’Italia non ha mai fatto uso di uranio impoverito né risulta che nel nostro poligono possa essere stato utilizzato da altri, a meno di dichiarazioni mendaci degli utilizzatori stranieri, che non voglio neppure ipotizzare”.
Una domanda è spontanea: ciò potrebbe significare, per esempio, che la percentuale degli ammalati che ha partecipato alle missioni è significativa, ma non dimostra necessariamente un legame fra la malattia e l’uranio impoverito? Pur senza voler mettere in dubbio le parole di Parisi, è impossibile non notare che questi dati sono in contrasto con quelli delle associazioni dei familiari dei caduti e dei familiari.
L’Anafaf di Falco Accame parla di 50 morti e più di 500 ammalati, il Maresciallo Domenico Leggiero (ultima immagine in pagina), dell’Osservatorio militare, ospite qualche giorno addietro di “Striscia la notizia”, parla invece di 164 morti e 2.536 ammalati.
“Ci ripromettiamo per la fine di dicembre di dire quali danni lo Stato italiano deve ripagare e quante e quali persone deve ammettere alle previdenze previste per i danni ricevuti da cause di servizio, mortali o di malattie”. E’ quanto dichiarato il 21 settembre scorso da Lidia Brisca Menapace, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, durante la conferenza stampa nella prefettura di Lecce, prima del sopralluogo al poligono di tiro di Torre Veneri. Il mandato della Commissione attualmente in carica scadrà a dicembre, anche se molto probabilmente sarà presentata una richiesta di proroga.
Intanto c’è molta attesa per la relazione ufficiale dell’attività svolta in questo primo anno, che dovrà riassumere ciò che la stessa Menapace ha chiamato “la lista dei danni”. I tentativi di comprensione da parte dei vari governi che si sono succeduti, sui danni provocati dall’uso dell’uranio impoverito, hanno nel nostro paese una storia che dura dal 2000, quando con un decreto del Ministro della Difesa del dicembre 2000, fu istituita la Commissione presieduta dal professor Franco Mandelli.
Dopo i dubbi e le perplessità, sia in ambito scientifico sia politico, suscitati dall’operato di tale commissione, con la deliberazione del 17 novembre 2004 fu istituita la prima Commissione parlamentare d’inchiesta, i cui lavori furono prorogati dopo un anno e terminarono con una corposa relazione approvata dalla stessa Commissione il 1 marzo del 2006. I risultati parziali cui si è giunti, rispetto al problema dei militari malati o deceduti e rispetto alle eventuali responsabilità da parte delle Istituzioni, ha motivato la creazione di una seconda Commissione parlamentare d’inchiesta, che è quella presieduta dalla senatrice Menapace.
Il diverso orientamento, almeno nell’enunciazione di principio, si ravvede già fin dalla denominazione delle rispettive commissioni, come per interagire con lo sviluppo degli eventi e la conseguente necessità di indagare su aspetti nuovi.
La “Commissione Mandelli”: “Relazione finale della Commissione istituita dal Ministro della Difesa sull’incidenza di neoplasie maligne tra i militari impegnati in Bosnia e Kosovo”.
La prima Commissione: “Istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sui casi di morte e gravi malattie che hanno colpito il personale militare italiano impiegato nelle missioni internazionali di pace, sulle condizioni della conservazione e sull’eventuale utilizzo di uranio impoverito nelle esercitazioni militari sul territorio nazionale”.
La Commissione d’inchiesta attualmente in carica ha preso vita dopo la deliberazione del Senato dell’11 ottobre 2006 al fine di indagare “sui casi di morte e gravi malattie che hanno colpito il personale italiano impiegato nelle missioni militari all’estero, nei poligoni di tiro e nei siti in cui vengono stoccati munizionamenti, anche sulla base dei dati epidemiologici disponibili, riferiti alle popolazioni civili nei teatri di conflitto e nelle zone adiacenti le basi militari sul territorio nazionale in relazione all’esposizione a particolari fattori chimici, tossici e radiologici dal possibile effetto patogeno, con particolare attenzione agli effetti dell’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito e della dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di minerali pesanti prodotte dalle esplosioni di materiale bellico e a eventuali interazioni.”
Facciamo un passo indietro. Nelle conclusioni della Relazione finale della Commissione Mandelli si legge tra l’altro che “Per le neoplasie maligne, considerate globalmente emerge un numero di casi inferiore a quello atteso. Esiste un eccesso, statisticamente significativo, dei casi di Linfoma di Hodgkin. I risultati dell’indagine a campione sui militari italiani impiegati in Bosnia e Kosovo non hanno evidenziato la presenza di contaminazioni da uranio impoverito. Questo risultato è in accordo con quanto rilevato a tutt’oggi dalle altre indagini svolte sia su militari che sull’ambiente, a livello nazionale e internazionale. Sulla base dei dati e delle informazioni attualmente disponibili, non è stato possibile individuare le cause dell’eccesso di Linfomi di Hodgkin evidenziato dall’analisi epidemiologica svolta.”
La Relazione si conclude con una serie di raccomandazioni che indicano l’opportunità di proseguire con gli studi, col monitoraggio del personale impiegato nelle missioni e con la promozione di ricerche a carattere internazionale.
Intervistato, il professor Franco Mandelli, pur indicando la necessità di ulteriori studi, ha dichiarato che il numero delle neoplasie maligne è “significativamente inferiore a quello atteso”, anche se in eccesso. (La Repubblica.it, 19 marzo 2001). “Allo stato attuale”, ha aggiunto, “tale risultato può essere dovuto al caso”. La commissione ha studiato 48 casi di cui 38 su militari ancora in vita. Il confronto fra i dati rilevati e i registri dei tumori, il numero dei casi attesi era 56, per cui secondo la Relazione della Commissione, il nesso con l’uranio è da escludere.
In sintesi, come ha affermato l’allora Ministro della Difesa Antonio Martino “Le conclusioni della Commissione Mandelli non consentono la rimozione del problema. L’unica cosa di cui non sappiamo darci spiegazioni è l’eccesso di contagio del linfoma di Hodgkin. Non esiste una correlazione tra uranio impoverito e tumori, comunque la Difesa farà tutto il possibile perché tutte le precauzioni necessarie vengano assunte” (Rainews24, 9 luglio 2002).
La Commissione Mandelli ha prodotto una relazione preliminare datata 19 marzo 2001, una seconda relazione datata 28 maggio 2001 e infine una terza, datata 11 giugno 2002. Perché tre versioni? Nel corso di una conferenza stampa, la cui notizia è stata riportata dall’agenzia Ansa il 21 marzo 2001 (due giorni dopo la presentazione della prima versione della Relazione), Falco Accame, presidente dell’Associazione che raccoglie e sostiene le famiglie delle vittime e dei malati, ha detto che i dati di partenza presi a base dalla Commissione, sono completamente sfalsati.
“Per fare un esempio: sono stati presi in considerazione i militari che sono stati in Albania, dove l’uranio non è stato usato, e non quelli in Somalia, dove invece è stato usato. Bisognava fare il contrario”. Nel corso della medesima conferenza stampa, Giambattista Marica, un militare che ha partecipato alla missione in Somalia, guarito da un linfoma di Hodgkin ha precisato che il suo caso non è stato preso in considerazione dalla Commissione “perché, dicono che allora l’uranio non fu usato”.
Clamorosi errori statistici, ai quali la Commissione ha tentato di porre rimedio, sono stati inoltre evidenziati da Lucio Bertoli–Barsotti, professore di Statistica presso l’Università di Torino.
Successivamente, le conclusioni della Commissione sono state ancora una volta segnalate come non valide, sia perché il numero dei militari presi in esame era molto maggiore di quelli che effettivamente avevano operato in territori contaminati, sia perché non si era tenuto conto che circa un terzo dei militari monitorati aveva nel frattempo usato le protezioni previste, come tute, guanti, maschere.
La Commissione Mandelli è stata dunque un fallimento, i problemi sono rimasti tali e quali, e il Senato ha istituito la prima Commissione d’inchiesta, di cui parleremo nella prossima puntata.


ottava puntata

di Lorenzo Pellegrini

13/02/2008

La Relazione conclusiva sulle indagini svolte dalla cosiddetta prima Commissione, consta di 124 pagine in formato “pdf” ed è il risultato di un anno e mezzo di lavoro da parte di una ventina di Senatori: dal 17 novembre 2004, data della deliberazione del Senato, fino al 1 marzo 2006, data dell’approvazione della Relazione finale.
Si tratta di un documento molto complesso, organizzato fondamentalmente in quattro parti. Nel capitolo di introduzione, si analizza l’attività parlamentare conoscitiva svolta in precedenza, nonché l’attività della commissione Mandelli.
Nel secondo capitolo, sono riportate alcune indicazioni di carattere preliminare, le scelte operative – che costituiscono l’aspetto più strategico dell’intera inchiesta -, il riassunto dell’attività svolta e un resoconto delle due missioni della Commissione, nei Balcani e in Sardegna.
Nel terzo capitolo trovano spazio i riassunti dei due studi affidati a enti esterni, rispettivamente riguardanti i “campioni di particolato prelevati in Kosovo e in Iraq e sui campioni di siero umano di alcuni militari”, e lo “studio sulle conseguenze ecologiche e sanitarie dell’uso di armi ad uranio impoverito”.
C’è infine il quarto capitolo, dedicato alle conclusioni, nel quale si risponde ai due fondamentali quesiti: il primo “attinente alle cause delle morti e delle gravi malattie fra i militari impegnati nelle missioni all’estero” e il secondo sulle “condizioni di conservazione e all’eventuale utilizzo di proiettili all’uranio impoverito nelle esercitazioni sul territorio italiano”.
Seguono alcune proposte di modifica legislativa. La Relazione si conclude con alcuni importanti allegati. Uno di questi è dedicato al riassunto delle 19 sedute in sede plenaria riservate all’audizione di 36 persone “fra titolari di cariche istituzionali, esperti, ufficiali delle forze Armate, funzionari pubblici e persone comunque coinvolte dalle problematiche oggetto dell’inchiesta”. Gli altri allegati consistono in alcuni studi di natura tecnica.
Se dovessimo riassumere i concetti espressi dall’intera relazione, o anche solo quelli riportati nelle “Conclusioni”, dovremmo probabilmente dire che tutto il lavoro della Commissione solleva più dubbi di quanti ne abbia risolti. I suoi risultati sono stati contestati da più parti, e non è un caso che a distanza di pochi mesi sia stata istituita una nuova Commissione (che ha terminato i lavori proprio la settimana scorsa).
In questa sede è impossibile ripercorrere puntualmente tutto il testo, ma l’impressione generale che è possibile trarre dalla lettura integrale delle 124 pagine, è che non vi sia una sufficiente convergenza tra i dati conclusivi e ciò che i 36 consulenti auditi hanno dichiarato.


nona puntata

di Lorenzo Pellegrini

17/02/2008

Ecco alcuni passaggi salienti riportati dalle “Conclusioni” della commissione.
“Non sono emersi elementi che consentano di affermare che le patologie in questione siano da attribuire ad effetti tossicologici o radiologici derivanti dall’esposizione alle radiazioni ionizzanti o alla contaminazione chimica dovuta a questo tipo di munizionamento (all’uranio impoverito NdR).
In proposito, appare di rilievo la circostanza che, a tutt’oggi, non sono state riscontrate, a quanto risulta alla Commissione, tracce di uranio impoverito in campioni istologici di militari italiani impegnati nelle missioni in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo che hanno sviluppato patologie tumorali.”
In riferimento allo studio del territorio presumibilmente interessato alla contaminazione, la Commissione dice: “Una valutazione puntuale dei rischi ambientali presenti sul terreno in cui si sono trovati a operare i militari italiani impegnati nelle missioni in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo è peraltro tutt’altro che agevole, tenuto conto in particolare della lacunosità dei dati epidemiologici disponibili per ciò che attiene allo stato di salute della popolazione residente nelle aree bombardate della Bosnia-Erzegovina e del Kosovo”.
Un aspetto di cui la Commissione decide di tener conto è relativo alle nanoparticelle, in considerazione del lavoro svolto dalla dott.ssa Gatti. “L’inalazione di nanoparticelle, corpuscoli di forma sferica di grandezza inferiore a un micron che sembrano prodursi in presenza di altissime temperature – dell’ordine dei 3.000ºC – e` stata indicata come possibile causa di aumentata incidenza di tumori. Tali temperature risultano in particolare – per cio` che qui interessa – essere generate dall’impatto di proiettili a UI (uranio impoverito) con le superfici colpite (corazzature di carri armati, depositi di munizionamento).
Ciò suggerisce l’ipotesi di un ruolo indiretto dell’UI nel promuovere le patologie oggetto di valutazione, attraverso l’inalazione delle nanoparticelle da esso generate, che sembrano essere suscettibili di dispersione anche a grande distanza dal luogo dell’impatto dei proiettili e per un periodo di tempo allo stato non valutabile.”
Per una panoramica puntuale sulle nanoparticelle, può essere utile visitare il sito internet www.nanodiagnostics.it. Un’ulteriore valutazione, interessante anche per la potenziale gravità del contesto, nonché per la natura delle responsabilità delle nostre Autorità, è quella relativa ai vaccini, con le dichiarazioni davanti alla Commissione del dr. Paolo Vanoli e del professor Massimo Montinari:“La Commissione ha preso in esame, in particolare nello scorcio finale della sua attività, l’ipotesi che all’origine dell’aumentata incidenza delle patologie oggetto dell’inchiesta vi siano:
– talune componenti dei vaccini somministrati ai militari prima dell’impiego nel teatro della missione o durante lo stesso (in particolare, additivi come il thimerosal, peraltro in via di eliminazione, o metalli come l’alluminio);
– le modalità stesse della somministrazione (in ipotesi, difformi dagli schemi vaccinali raccomandati); nel corso delle audizioni è emerso a tale proposito come, specie in presenza di necessità di dislocamento accelerato nei teatri operativi delle unità militari, non sempre le strutture della Sanità militare hanno garantito il rispetto degli schemi vaccinali in questione”.
In altre parole, viene ritenuta significativa l’ipotesi secondo cui a procurare gravi danni ai militari italiani impiegati nelle missioni all’estero, possano essere stati i vaccini, sia per le sostanze di cui erano composti, sia per il modo in cui tali vaccini sarebbero stati somministrati.
La sintesi estrema del lavoro della Commissione Parlamentare d’inchiesta è riportata nel seguente passaggio: “In conclusione, non può non rilevarsi che il pur intenso lavoro condotto non ha consentito di pervenire a conclusioni univoche su alcune delle questioni affrontate:
a) in primo luogo, si è dovuto constatare come la Commissione non abbia ancora potuto disporre di dati certi sul numero dei militari impegnati in missioni internazionali di pace all’estero che hanno sviluppato neoplasie. Rimangono poi aperti gli interrogativi ai quali in precedenza si è accennato circa i danni a lungo termine per la salute dei militari e delle popolazioni residenti che potrebbero derivare dall’esposizione ai particolati fini e ultrafini che si disperdono nell’ambiente in occasione di combustioni ad altissime temperature, temperature che si determinano nell’impatto di proiettili a uranio depleto contro le superfici colpite e nello smaltimento di rilevanti quantitativi di munizioni all’interno dei cosiddetti«fornelli».”
Come abbiamo anticipato, i problemi che la Commissione avrebbe dovuto aiutare a comprendere, vengono riproposti chiedendo ulteriori approfondimenti, proponendo azioni legislative, ulteriori studi e l’istituzione di un’altra commissione d’inchiesta:”… essa (la Commissione NdR) reputa che, nel corso della prossima Legislatura, un eventuale avvio di un’inchiesta parlamentare che avesse ad oggetto le problematiche che sono state al centro dell’attenzione della presente inchiesta potrebbe assicurare un importante contributo all’affermazione di un quadro di ragionevoli certezze, in un contesto che resta al momento, come si e` visto, per vari aspetti ancora controverso. Ciò, in particolare, se l’avvio dell’ipotizzata nuova inchiesta parlamentare fosse accompagnato dal consolidamento della base conoscitiva disponibile, attraverso la realizzazione delle iniziative di monitoraggio e di quelle di ricerca…”
Nella prossima puntata ci occuperemo di alcuni dati emersi dalle audizioni.

Decima puntata

di Lorenzo Pellegrini

23/04/2008

La Relazione conclusiva della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, ha suscitato numerose perplessità nel mondo politico e sociale, offrendo l’occasione per l’apertura di molte discussioni.
Ciò si è verificato fondamentalmente per due motivi. Il primo è che essa non avrebbe, secondo molti, risolto i problemi per i quali era stata posta in essere; il secondo è che alcuni temi emersi dalle indagini e soprattutto dalle testimonianze acquisite attraverso le audizioni, non sarebbero stati adeguatamente valutati in sede di stesura della Relazione stessa.
Per concludere la nostra analisi alla ricerca della comprensione dei motivi che hanno portato all’istituzione di una ulteriore commissione parlamentare, è perciò il caso di parlare del contenuto di alcune audizioni che possiamo ritenere interessanti, cogliendo l’occasione per ricordare che il testo completo dei resoconti delle audizioni è disponibile sul sito internet del Senato.
Nella seduta dell’11 maggio 2005 il Ministro della Difesa Antonio Martino ha ribadito una serie di concetti fondamentali che la Commissione non ha affatto trascurato. Innanzi tutto il Ministro ha posto l’accento sul fatto che fino a quella data, non esisteva alcuno studio nazionale o internazionale che avesse dimostrato un chiaro e inequivocabile nesso di causa-effetto fra l’utilizzo del munizionamento ad uranio impoverito e le patologie che hanno interessato i militari ammalati o deceduti.
Precisamente, Martino ha parlato di risultati che hanno “escluso qualsiasi impatto negativo nell’utilizzo dell’uranio impoverito sulla salute”. Ha fatto riferimento, tuttavia, alle misure di tutela sanitaria e assistenziale predisposte a favore dei militari, anche nei casi in cui non sia stato possibile valutare “una eventuale dipendenza dell’infermità dal servizio svolto”. Il Ministro ha infine rivendicato la trasparenza e la disponibilità della Difesa per “fugare ogni dubbio” e dimostrare che nei poligoni ubicati nel territorio nazionale non sia “mai stato autorizzato l’impiego di munizionamento speciale” e ha ricordato tutte le “misure di protezione adottate nei confronti dei militari italiani impiegati nei vari teatri di operazione”. Martino ha concluso la sua audizione dichiarando che “la Difesa è fortemente impegnata nella ricerca di verità scientifiche”.
I testi di alcune audizioni acquisite dalla Commissione in tempi successivi, sembrano però contraddire i fatti esposti dal Ministro.
Nella seduta del 1 giugno 2005 il dottor Armando Benedetti, “esperto qualificato in radio esposizione del Centro interforze studi per le applicazioni militari (CISAM)”, ha ricordato che lo stesso Ente ha, a partire dal novembre 1999, inviato allo Stato maggiore della difesa un decalogo contenente le norme di comportamento alle quali i soldati avevano l’obbligo di adeguarsi in prossimità delle zone colpite e dei carri armati. Ma ammette che, nel momento in cui gli “italiani sono entrati in Kosovo -giugno1999, cinque mesi prima- (NdR), il tipo di protezione adottato era “generico””: consistente, cioè, in guanti e mascherina.
Particolarmente significativo sembra l’intervento dell’onorevole Falco Accame, presidente dell’Associazione di assistenza alle vittime delle Forze Armate (ANAVAFAF). Accame ha, in via preliminare, consegnato alla Commissione un documento intitolato “Elementi di risposta alle affermazioni del Ministro della Difesa, onorevole Martino, e del Ministero della Difesa circa l’interazione tra uranio impoverito e salute umana nelle operazioni militari”. Ha ricordato che l’esame dei rischi conseguenti all’esposizione all’uranio impoverito, erano stati già oggetto di attenzione da parte degli USA sin dalla prima Guerra del Golfo “il che portò ad adottare specifiche misure di protezione sin dall’operazione Restore Hope in Somalia nel 1993.
Le prime norme di protezione”, ha aggiunto Accame, “furono inviate dalla Nato, diversi anni prima, nel 1984”. Dice ancora Accame che secondo la testimonianza di un soldato impegnato nella stessa missione Restore Hope, gli italiani operavano “in calzoncini e maglietta”, a differenza degli americani che indossavano “occhiali, tute, maschere”. Per ciò che riguarda l’assistenza ai militari e ai rispettivi familiari, ha poi evidenziato le carenze della normativa vigente, sia sotto il profilo medico che morale ed economico, ed ha fatto riferimento al “principio di precauzione”, “anche in difetto della prova dell’esistenza di un rapporto di causalità” introdotto per con sei anni di ritardo.
Termineremo l’esame delle problematiche emerse dalle audizioni nella prossima puntata.

undicesima puntata

08/05/2008

La beffa

E’ notizia recentissima, di martedì 6 maggio 2008: la Corte di Cassazione ha deciso che i vertici militari, per il momento non sono processabili per la questione dell’uranio impoverito.

Il 18 maggio 2005 è comparsa davanti alla Commissione d’inchiesta la Dottoressa Antonietta Gatti, responsabile del Laboratorio dei biomateriali presso il Dipartimento di neuroscienze dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, e coordinatrice del progetto “Nanopathology”, finanziato dall’Unione Europea e avviato in collaborazione con le Università di Cambridge e Magonza.

Sui campioni biologici di alcuni soldati italiani e francesi che hanno partecipato alla missione in Kosovo, sono state riscontrate rilevanti quantità di “micro e nanoparticelle con composizioni chimiche (in particolare: la presenza di notevoli quantità di metalli pesanti) e caratteristiche morfologiche non riscontrabili in natura”.

Tali particelle, estremamente piccole e visibili con il microscopio a scansione, secondo la scienziata “si producono in presenza di altissime temperature (circa tremila gradi, NdR), analoghe a quelle che si determinano nell’ambiente nell’esplosione di una bomba all’uranio impoverito”.

La dottoressa Gatti ha poi riferito di un rapporto ufficiale risalente al lontano 1977 relativo ad un esperimento condotto in una base militare USA nel deserto del Nevada. In quel documento si evidenziava che, in seguito all’esplosione di un ordigno all’uranio impoverito, non fu trovata traccia di tale metallo, bensì dei prodotti della sua combustione, in forma di particelle microscopiche e morfologicamente uguali a quelle rilevate nei campioni biologici dei soldati italiani e francesi.

Allo stesso esperimento, come sostegno all’ipotesi avanzata dai mezzi di comunicazione di massa secondo cui i nostri soldati “sarebbero stati esposti ad un significativo rischio di sviluppare tumori”, fa riferimento il dottor Cosimo Tartaglia “presidente dell’Osservatorio permanente e Centro Studi per il personale delle Forze Armate, Forze di Polizia e società civile”, audito dalla Commissione il 23 giugno 2005. Tartaglia però chiama direttamente in causa i vertici militari italiani. Ricorda che nel 2000 il Ministro della Difesa (On. Sergio Mattarella, NdR), in due diversi interventi parlò prima di “una totale assenza di ordigni all’uranio impoverito nei territori d’impiego dei militari italiani, per poi arrivare nel dicembre dello stesso anno ad ammettere che in effetti nei territori balcanici erano stati utilizzati ordigni all’uranio impoverito”.

Il ragionamento di Tartaglia è lineare: o i vertici militari “erano a conoscenza del pericolo e non hanno avvertito il Governo”, oppure “erano a conoscenza del pericolo e lo hanno sottovalutato”, oppure ancora, erano a conoscenza del pericolo e “con l’assenso del Governo, hanno taciuto il rischio”.

Una quarta possibilità, secondo il nostro punto di vista, potrebbe essere che i vertici militari italiani non fossero a conoscenza del fatto che nei territori nei quali agivano le nostre truppe, erano stati usati ordigni all’uranio impoverito. Stiamo parlando solo di ipotesi: nessuna delle quali, tuttavia, appare minimamente tranquillizzante.

Senza parlare della notizia della quale accennavamo nell’occhiello dell’articolo, ossia che la Corte di Cassazione ha deciso che i vertici militari, per il momento, non sono processabili per la questione dell’uranio impoverito.
Che vuol dire “per il momento”? Come se esistesse un momento giusto ed uno sbagliato! Chissà se qualcuno ha chiesto ai militari colpiti dalle conseguenze dell’esposizione all’uranio impoverito se gradivano o meno che accadesse? Magari avrebbero risposto “per il momento” no.

dodicesima puntata

05/06/ 2008

– Aspettando i risultati del Progetto Signum.

“Ogni giorno ciascun individuo assume, con la respirazione, l’ingestione e l’inalazione mediamente circa 3,7 microgrammi di tale elemento” (di uranio, NdR). E’ quanto dichiarato, davanti alla Commissione Parlamentare d’inchiesta, dal Prof. Massimo Zucchetti, docente di “Protezione e impatto ambientale dei sistemi energetici” presso la Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino, audito il 29 giugno 2005.

Secondo Zucchetti l’uranio impoverito ha un livello di radiazione molto basso, tuttavia è un “emettitore di particelle alfa ed è suscettibile di determinare danni principalmente per irraggiamento interno, cioè` quando viene ingerito o inalato”. Le particelle di metallo vengono assorbite dall’organismo in modo diverso a seconda che si presentino come particelle solubili o insolubili.

E’ possibile che le prime vengano metabolizzate e che passino agli altri organi attraverso i polmoni. Quelle insolubili si depositano invece nei tessuti e possono emettere radiazioni. Zucchetti ha anche ipotizzato le categorie di soldati più a rischio in base all’incarico ricoperto. In cima alla lista elicotteristi, “costruttori di installazioni da campo o di alloggiamenti militari; gli addetti allo sgombero e alla pulizia dei campi di battaglia o di esercitazione o di esercitazione; i cosiddetti liquidatori che risultano essere il gruppo a rischio maggiore”.

Una iniziativa da cui si potevano intuire enormi potenzialità è stata presentata alla Commissione il 13 luglio 2005 dal professor Sergio Amadori. Si tratta del cosiddetto Progetto Signum, del cui Comitato Scientifico, lo stesso Amadori era il presidente. Cos’era, anzi, cos’è il Progetto Signum? E’ “Lo studio dell’impatto genotossico nelle unità militari”, nato nel 2003 su iniziativa della Sanità militare “nel quadro dell’impegno volto a raccogliere le raccomandazioni formulate dalla Relazione finale della Commissione Mandelli” (Il Comitato scientifico è stato poi istituito il 13 agosto 2004 con apposito Decreto ministeriale).

Secondo le previsioni, il Progetto aveva come obiettivo quello di reclutare “una coorte di militari dislocati nel teatro operativo dell’Iraq” per predisporre il prelievo di campioni biologici da analizzare. Il fine era quello di valutare l’effettiva esposizione all’uranio impoverito e ad altri agenti, cercarne le tracce, evidenziare eventuali danni e stabilire i fattori di rischio.

Dice il testo ufficiale delle risultanze delle audizioni: “La presentazione di un report definitivo – ha dichiarato infine il professor Amadori – e` prevista per la seconda meta` del 2006.” Una iniziativa dalle enormi potenzialità, come dicevamo, anche in disaccordo con i molti che a vario titolo, sin dal primo momento non lesinarono critiche. Peccato che a metà del 2008, dei risultati ancora neanche si parli.

Lorenzo Pellegrini

Tredicesima puntata 15 settembre 2008
Con la deliberazione del Senato dell’11 ottobre 2006, è stata istituita la seconda Commissione parlamentare d’inchiesta, identificata con un nome lunghissimo e composta da ventuno senatori nominati in proporzione ai gruppi parlamentari ed insediatasi, con notevole ritardo, solo il 13 febbraio 2007. La Commissione, presieduta dalla Senatrice Lidia Brisca Menapace di Rifondazione Comunista, nel corso della sua attività, ha effettuato tredici sedute in sede plenaria, venti riunioni dell’Ufficio di Presidenza, due sopralluoghi in Sardegna, uno in Libano e una missione in provincia di Lecce, spendendo complessivamente solo circa il 30% del bilancio a disposizione, che ammontava a centomila euro per l’anno 2007. Il mandato assegnato alla Commissione era notevolmente più ampio rispetto agli obiettivi della Commissione Mandelli e a quelli della prima Commissione parlamentare di cui abbiamo parlato nelle precedenti puntate. Il suo compito era quello di verificare l’utilizzo, da parte delle Forze Armate italiane, di ordigni all’uranio impoverito nel nostro territorio o all’estero, nonché indagare sull’eventuale esposizione e sugli effetti del metallo sui nostri soldati. Le vaste problematiche emerse nel corso degli anni, hanno imposto una particolare attenzione nei confronti di eventuali altri fattori di rischio come “gli effetti della dispersione ambientale delle cosiddette <>, ma anche rispetto all’impatto sulle popolazioni civili, sia nelle zone circostanti ai poligoni di tiro nel territorio nazionale, che nei teatri bellici all’estero. Altrettanta attenzione è stata prestata al problema dei vaccini e delle modalità di vaccinazione dei militari, dopo che diversi studiosi hanno dimostrato che potrebbe esserci un legame stretto con le patologie riscontrate. Sul sito internet del Senato, è a disposizione il materiale prodotto dalla Commissione fra cui la Relazione finale, approvata nella seduta del 12 febbraio 2008, dopo un anno di attività. I due problemi principali, evidenziati dal testo di tale documento, consistono da una parte nella difficoltà di reperire dati completi, omogenei e attendibili circa le patologie che hanno interessato i militari e i civili, e dall’altra la mancanza di tempo sufficiente per compiere gli studi e analizzare i dati. La Relazione si completa con una sintesi delle conclusioni e una serie di proposte, finalizzate, si presume, a risolvere definitivamente il problema. Il punto più difficile, fondamentalmente irrisolto, era quello di stabilire una causalità certa fra le patologie e l’uranio impoverito. Gli studi scientifici, le polemiche politiche e giornalistiche, l’istituzione di organismi e strutture, e , infine, di ben due commissioni parlamentari d’inchiesta, sono nati proprio in seguito alle esigenze di chiarezza e di attribuzione di responsabilità avanzate da più parti, prime fra tutte, le famiglie dei malati e dei morti e le associazioni che le rappresentano. Il passo avanti, di importanza fondamentale, compiuto dalla Commissione, si chiama “criterio di probabilità”, che consiste nel “mutamento di prospettiva nell’impostazione del problema”. Cosa significa? Preso atto che non esiste, al momento, la possibilità di dimostrare senza alcun dubbio il nesso di causa-effetto fra l’uranio e le patologie, il cambio di direzione consiste nel consentire il ricorso ai cosiddetti “strumenti risarcitori” (la causa di servizio, per esempio), per il solo fatto che l’evento morboso si sia verificato, “a prescindere dall’accertamento scientifico e medico della causa”. Facendo ricorso ad opportune norme legislative, è quindi possibile accedere sia al risarcimento che a forme di assistenza. Per questo motivo sono stati predisposti, secondo quanto riportato nella Relazione conclusiva, “appositi stanziamenti a favore delle vittime e dei loro familiari, nel testo del decreto legge 1 ottobre 2007, n. 159 (convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222) che, estendendo i benefici previsti per le vittime del terrorismo, ha stanziato 175,72 milioni di euro per il biennio 2007/2008 e 3,2 milioni a decorrere dal 2009, ai quali si aggiungono i 30 milioni di euro per il triennio 2008/2010, previsti specificatamente per le patologie oggetto dell’inchiesta, nella legge finanziaria per il 2008”. Le associazioni delle famiglie dei malati, in generale, non ritengono che le conclusioni alle quali la Commissione è approdata siano sufficienti e ciò fa supporre che la battaglia non sia ancora terminata. Molti sono gli aspetti sui quali si è soffermata l’attenzione delle associazioni, a cominciare dalla discordanza con i numeri relativi alle vittime a ai malati portati in Commissione dall’allora Ministro della Difesa Arturo Parisi. La Commissione, dunque, non ha avuto il tempo di terminare il proprio lavoro; è con tale motivazione che si richiede da più parti (ad esempio dal senatore ed ex magistrato Felice Casson, già membro della Commissione stessa), l’istituzione immediata di un’ ulteriore commissione d’inchiesta. Le morti sospette continuano a susseguirsi; ultimo in ordine di tempo, il ventiquattrenne paracadutista della Folgore Domenico Currao, di Vibo Valentia, vittima di un tumore la cui aggressività ha stupito gli stessi medici. Accertata oramai a livello mondiale l’estrema pericolosità dell’uranio impoverito dal punto di vista radioattivo, tossicologico e chimico, non possiamo che tornare al punto di partenza. La nostra inchiesta, per il momento, può concludersi qui. Tutti questi anni di tragedie, di studi, teorie, dibattiti, accuse, indagini internazionali, non sono bastati a determinare in modo inconfutabile se fra uranio impoverito e patologie ci sia un rapporto di causa-effetto; non sono tantomeno bastati ad attribuire la benché minima responsabilità, qualora esistesse, a chi ha condotto i nostri soldati nei territori in cui quegli ordigni sono stati usati. Il riconoscimento della causa di servizio e l’accesso all’assistenza e ai benefici economici, appaiono, tutto sommato, solo un parziale passo avanti e un palliativo, se non un amaro placebo di cui le vittime sono costrette ad accontentarsi.

Lorenzo Pellegrini

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